Intervista a Antonio Di Gennaro su Cioran

Ricevo e volentieri pubblico una recente intervista ad Antonio di Gennaro su Cioran, intitolata

I TACCUINI DI CIORAN. INTERVISTA AD ANTONIO DI GENNARO
di minima&moralia pubblicato martedì, 10 Gennaio 2023

Potete leggere l’originale al seguente indirizzo: https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/i-taccuini-di-cioran-intervista-ad-antonio-di-gennaro/

In occasione della recente pubblicazione per Mimesis Edizioni del Taccuino di stenografia, un inedito in rumeno risalente alla fine degli anni Trenta, che raccoglie frammenti di pensieri annotati da Emil Cioran, abbiamo intervistato Antonio Di Gennaro, tra i massimi esperti in Italia e nel mondo del pensiero del grande pessimista rumeno, curatore per Mimesis di questa e di svariate altre opere cioraniane. Al pensiero di Cioran, Di Gennaro ha dedicato inoltre il volume monografico Metafisica dell’addio (Aracne, 2011), nonché diversi saggi inclusi in volumi collettivi.

Quando si è accostato per la prima volta all’opera di Emil Cioran? Cosa l’ha spinta a specializzarsi sempre di più nel pensiero di questo “apolide metafisico”, fino a diventarne uno dei più accreditati esperti italiani?

Nella mia vita gioca molto l’elemento del “caso”. Il caso che diventa destino, predestinazione, fato. Accade qualcosa per caso, inavvertitamente, ma è per me una folgorazione, un bagliore improvviso e accecante, che mi conduce a esplorare nuovi territori, inesplorati, o meglio, l’abisso di nuovi fondali. E allora mi lascio trasportare dalla corrente, ne seguo il flusso, mi immergo, affondo, sprofondo, per scoprire cosa c’è nel fondo. È una sorta di “chiamata”, di “vocazione”, che ovviamente non ha nulla di religioso. Ho letto per la prima volta Cioran nel 2000, penso. Per caso mi sono imbattuto ne La caduta nel tempo, ultima opera francese, pubblicata nel 1986. Le pagine conclusive sono di una bellezza unica. Avvertii subito un’affinità con le tematiche affrontate: il tempo, in primo luogo, che scardina e scuoia l’esistenza. Un pensatore sovversivo nel linguaggio, nell’impostazione teorica, teoretica. Un autore di primissimo piano, una voce straordinaria, in termini di profondità, acume, spessore spirituale. Lontano dal linguaggio accademico e autoreferenziale dei filosofi di professione e vicino ai letterati, ai poeti. Insomma, è stato amore a prima vista, che mi ha portato a pubblicare, dopo circa dieci anni di serrato studio, il volume Metafisica dell’addio e successivamente a occuparmi, nel corso degli anni, dei testi inediti del pensatore romeno.

Ancor prima del Taccuino di Stenografia, Lei ha curato appunto la pubblicazione di diversi altri volumi di Cioran per Mimesis, perlopiù epistolari, interviste o altri scritti postumi, come Tra inquietudine e fede, che raccoglie il trentennale epistolario tra Cioran e George Bălan, o la traduzione della celebre intervista con Jason Weiss L’intellettuale senza patria. Come è nata la collaborazione con Mimesis e in che modo ha seguito queste precedenti pubblicazioni? 

Durante la stesura dei saggi contenuti in Metafisica dell’addio, dove offro una lettura di Cioran in chiave psicanalitica, ho iniziato a consultare testi stranieri dedicati al pensatore transilvano. Venivano citate in nota o nella sezione bibliografica, interviste e conversazioni che in Italia non erano mai apparse. Ho deciso così di fare una mappatura di questo materiale, assolutamente inedito in Italia, e di recuperarlo. È stata una caccia appassionata ma laboriosa, un inseguire ogni minima traccia, ogni indizio, per ricostruire una sorta di puzzle ideale. Ho contattato archivi, biblioteche, redazioni di quotidiani, emittenti televisive e radiofoniche, singoli giornalisti e intellettuali, sparsi per il mondo. Dopo alcuni anni di estenuanti ricerche sono riuscito a recuperare circa quaranta interviste, lettere manoscritte e alcune foto. Troppo materiale per essere pubblicato in un unico volume. L’idea di iniziare con singoli tasselli del puzzle venne a Pierre Dalla Vigna, fondatore e co-direttore delle edizioni Mimesis. Mi consigliò di pubblicare piccoli volumi, non mirare all’insieme, all’“opera omnia”, e credo sia stata una mossa vincente sul piano editoriale.

Il Taccuino di Stenografia è scritto in rumeno, ma qua e là iniziano ad affacciarsi alcune singole parole o frasi in francese che preludono al successivo e drastico “cambio di lingua” che portò Cioran ad affermarsi come uno dei più feroci maestri della prosa francese. Linguisticamente parlando, quali sfide comporta la traduzione e la curatela di un’opera di Cioran? Come si svolge il suo lavoro di curatela e il suo rapporto con i vari traduttori?

Le difficoltà sono varie e sono legate al tipo di documento che bisogna tradurre, alla lingua e al periodo in cui è stato originariamente scritto. Sarò più preciso. Una cosa è tradurre una lettera giovanile, scritta in lingua romena, un’altra è tradurre una missiva redatta nel periodo della maturità, in lingua francese. Lo stesso vale per gli articoli, le interviste e i singoli volumi. Il giovane Cioran che scrive in lingua romena non si pone il problema dello stile. Spetta al traduttore e al curatore “accordare” il più possibile la versione italiana, rispettando di certo fedelmente il testo di partenza, ma dando un tono, una musicalità alle parole. Il giovane Cioran, come quello ad esempio del Taccuino per stenografia, scrive in maniera convulsa, concitata, esasperata. Ciò che è vissuto o intuito viene istintivamente riversato nella scrittura. Manca la mediazione consapevole del pensiero, della ragione, che organizza in maniera sistematica le parole, dando ad esse una forma stilisticamente compiuta. Nella lingua romena, la scrittura è “rozza”, passionale, priva di grazia, ma non per questo meno profonda, anzi. Lo si avverte nelle lettere giovanili (ad esempio quelle inviate a Arșavir e Jeni Acterian e a Petre Țuțea) o anche nella pubblicistica, tuttora inedita. Altro discorso vale per il Cioran francese, maestro insuperato della scrittura. Qui la prosa diventa musica, il frammento, poesia. In ogni caso, al di là della lingua, credo debba esserci un rapporto non solo di stima, ma di assoluta empatia tra un curatore e un traduttore. Entrambi si confrontano e lottano con le parole, per cercare quella più adatta per esprimere un determinato concetto. La traduzione ha a che fare con le sfumature semantiche. Bisogna individuare la tonalità giusta di ogni singolo vocabolo, per restituire la bellezza dell’insieme.

“Tu dovresti già conoscere l’orrore di pensare, il timore di sentir sorgere un’idea che successivamente lacera la carne e lo spirito. Ogni volta che ho percepito tali brividi, sui Pirenei o altrove, ho provato ad esaurire l’energia che mi costringeva a pensare, pedalando o passeggiando”, scrisse Cioran all’amico Arșavir Acterian in una lettera poi raccolta ne L’orgoglio del fallimento. Lo stesso Taccuino di Stenografia, apprendiamo dall’introduzione di Eugène van Itterbeek, raccoglie pensieri che Cioran si appuntava durante le sue gite in bicicletta attraverso la Francia, e l’immagine di Cioran in bicicletta contrasta decisamente con il mito del pensatore misantropo e perennemente rinchiuso nel suo appartamento parigino. Quanto importante fu per il giovane Cioran l’utilizzo della bicicletta come strumento di “depensamento”?

Nel corso degli anni Cioran adotta diverse strategie per sopportare il peso della vita. La fatica fisica in primo luogo (camminare, pedalare, lavorare manualmente) o apprendere in maniera caparbia la lingua francese. Quando nel 1937 Cioran giunge a Parigi ha 26 anni. Da tempo soffre di depressione e di insonnia. Finge di occuparsi di filosofia, ma in realtà i conti con la filosofia erano stati già da tempo chiusi, sin dalla sua prima opera: Al culmine della disperazione (1934). Cioran inizia a girovagare allora per la Francia in bicicletta. L’attività fisica costante gli consente di fiaccare il corpo, di crollare, e quindi di riposare. Egli desidera dormire, perché nel sonno non percepisce l’inquietudine della vita, la drammaticità dell’esistenza. Quindi la bicicletta è un mezzo per raggiungere uno scopo concreto: stancarsi per sprofondare nel sonno, per sopire momentaneamente la coscienza. Successivamente Cioran si dedicherà ad un’altra attività: si circonda di vocabolari per appropriarsi e acquisire piena padronanza della lingua francese. La finalità è la stessa: sedare la noia, ottundere la solitudine, riempire un vuoto d’amore con le parole.

Già nella prima pagina del Taccuino di Stenografia afferma che “la tristezza non ha un inizio” e parla di esistenza “in sé”, ricordando un po’ il lessico de L’essere e il nulla. Non poche delle riflessioni più celebri di Cioran, a cominciare da quelle sul valore epifanico della noia sembrano ricordare alcuni altrettanto celebri passaggi dei romanzi o dei saggi degli esistenzialisti francesi a lui contemporanei, del club di Sartre, Camus & co., con i quali Cioran nondimeno ebbe rapporti burrascosi. In che modo si collocava il “meteco” Cioran nella cultura francese del suo tempo?

Cioran è un “outsider” della filosofia, è al di là della filosofia. Non può essere messo sullo stesso piano degli esistenzialisti. Egli è un pensatore esistenziale, non un filosofo esistenzialista. La sua è una riflessione personale, assolutamente privata. Cioran non elabora infatti teorie o concetti generali sull’esistenza. L’esistenza non è una categoria astratta su cui bisogna disquisire. Egli parla di sé, della propria esistenza, della propria personale esperienza della vita. Ne parla in prima persona, non in terza. È questa la differenza. Ha ragione Lei a parlare di “rapporti burrascosi”. Ma riguardavano gli altri, altezzosi e saccenti. Cioran era completamente indifferente alle mode del tempo. Non apparteneva a nessuna cerchia, purtuttavia è stato riconosciuto universalmente come uno dei più grandi scrittori di lingua francese di sempre.

In uno dei saggi raccolti nel suo Metafisica dell’Addio, Lei propone un accostamento meno abituale, confrontando i celebri aforismi di Cioran sul sonno e l’insonnia con la “veglia anonima” di cui parlava Emmanuel Lévinas in Dall’esistenza all’esistente. Il nome di Lévinas effettivamente compare tra i Quaderni cioraniani. Dal suo punto di vista quali punti di vicinanza c’erano tra un “nichilista di tendenze religiose” quale era Cioran e un pensatore come Lévinas, curiosa intersezione tra filosofo e talmudista?

Anche Lévinas appartiene ai cosiddetti “filosofi di professione”, come Sartre, Heidegger, Jaspers, Ricoeur, Blanchot, ecc. Per uno studioso può risultare interessante, e funzionale alla propria scrittura, individuare motivi di possibile convergenza o divergenza tra vari pensatori. Ma ciò attiene all’interpretazione, all’ermeneutica soggettiva. Il dato di fatto incontestabile, oggettivo, è l’anti-filosofia di Cioran, la sua avversione verso il linguaggio e l’astrusità della filosofia ufficiale. Se dovessimo individuare autori autenticamente in linea con il cammino di pensiero di Cioran, sento il dovere di citare: Fernando Pessoa, Stig Dagerman, Pär Lagerkvist, Joë Bousquet.

Nel suo Metafisica dell’Addio compaiono più volte anche riferimenti a pensatori e poeti italiani come Leopardi o anche Giorgio Caproni, accostati a Cioran per la trattazione di questioni capitali quali la morte e l’oblio. Dal suo punto di vista c’è stata qualche influenza diretta tra Cioran e la cultura italiana, in un senso o nell’altro? 

Cioran conosceva Leopardi. Nella sua mansarda parigina era affissa alla parete una riproduzione de L’infinito. Conosceva e stimava anche Ungaretti. Leggeva la Divina commedia in lingua italiana, e ovviamente amava l’Inferno. Anche la cultura italiana deve molto a Cioran: è considerato non solo un classico, ma un punto di riferimento, una lettura obbligata. Viene citato da cantautori (Fabrizio De André), da poeti (Roberto Carifi), da intellettuali e scrittori, di qualsivoglia orientamento (Guido Ceronetti, Manlio Sgalambro, Gianfranco Ravasi). Ecco cosa ha scritto inoltre, recentemente, Roberto Saviano sul suo profilo Facebook: “Devo molto a questo pensatore: gli devo la non solitudine nell’abisso del dolore”.

Negli ultimi decenni della sua vita Cioran ebbe diversi interlocutori italiani, due su tutti Roberto Calasso e Mario Andrea Rigoni, entrambi scomparsi lo scorso anno. Il rapporto editoriale con Adelphi quanto ha contribuito a cementare la posizione di Cioran come classico del Novecento?

La casa editrice Adelphi ha il grande merito di aver avviato, sin dagli anni Ottanta, un ambizioso progetto di traduzione, diffusione e valorizzazione dell’opera di Cioran in Italia. Il Prof. Rigoni ha egregiamente diretto e coordinato la pubblicazione delle maggiori opere, soprattutto di quelle francesi. Purtroppo, ad oggi c’è ancora una lacuna evidente. Non sono ancora disponibili in libreria alcuni testi cruciali del periodo romeno come Il libro delle lusinghe e Il crepuscolo dei pensieri. Se è vero però che Adelphi ha avviato questo processo, anche altri editori hanno contribuito in questi ultimi anni in maniera decisiva alla conoscenza di tale pensatore. Ne cito alcuni: Mimesis, Voland, La scuola di Pitagora. Proprio con La scuola di Pitagora è apparso un volume da me curato importantissimo, a livello mondiale: Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994).

Ci sono altri testi di Cioran inediti in Italia che Lei vorrebbe prossimamente far tradurre e pubblicare?

I testi da tradurre sono ancora tanti. In particolar modo, c’è la pubblicistica, gli articoli politici giovanili. Per quanto riguarda i carteggi, di grande importanza sono l’epistolario con Constantin Noica e la corrispondenza con Armel Guerne. Fortunatamente la comunità di studiosi e traduttori di Cioran in Italia è nutrita e molto attiva. Sicuramente, con l’impegno di tutti, cercheremo di offrire al pubblico italiano le tessere ancora mancanti. Per quanto mi riguarda, il mio desiderio più grande è quello di curare lo scambio epistolare intercorso tra Cioran e Fernando Savater. Sono lettere che nessuno conosce, mai pubblicate. Ogni tanto ritorno sul tema, sollecitando il Prof. Savater, ma lui per ora preferisce custodirle gelosamente…

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