Gesualdo Bufalino è conosciuto più che altro per “Diceria dell’untore” o al massimo per il Premio Strega, “Le menzogne della notte” .
In realtà, uomo di grande cultura e diversissime passioni (cinema, musica, scacchi, ecc.), fu anche un ottimo traduttore dal francese e dallo spagnolo, nonché fine aforista (una breve selezione si può leggere sul sito di Aforisticamente).
Come si può notare da questi aforismi (uno su tutti: “Diffidate dagli ottimisti, sono la claque di Dio”), Bufalino possiede alcune caratteristiche che facilmente richiamano Emil Cioran.
Ed è proprio questo l’accostamento fatto da Matteo Collura in un articolo sul Corriere della Sera del 23 settembre 2008.
SAGGI LO SCRITTORE SICILIANO RACCONTATO DA ELLA IMBALZANO: INTRECCI LETTERARI E RAPPORTI CON LA VITA
Gesualdo Bufalino, quel perverso ottimista simile a Eco e Cioran
Pubblicata l’intera opera di Gesualdo Bufalino, scrittore prolifico, ma giunto tardi alla notorietà (aveva 61 anni quando apparve Diceria dell’untore, romanzo subito premiato con il Campiello), ora Bompiani manda in libreria l’articolato saggio di Ella Imbalzano dedicato allo scrittore scomparso nel 1996, Di cenere e d’oro (pp. 460, 14,50).
Un libro utile, questo, non soltanto per gli addetti ai lavori (che vi troveranno un’attenta bibliografia assieme a una notevole messe di informazioni relative soprattutto alla genesi delle opere), ma per coloro i quali hanno assaporato soltanto qualche pagina dello scrittore, restandone il più delle volte sconcertati per quel suo scettico ammiccare e quella sua prosa sorvegliatamente colta e compiaciutamene disperata.
Richiuso il libro della Imbalzano, che avevo avuto occasione di leggere in manoscritto (ovviamente, tanto è cambiato e cresciuto nel frattempo), azzeccato mi è apparso il parallelo che in precedenza mi era sembrato di riscontrare tra le pagine di Bufalino e quelle dello scrittore romeno-francese E. M. Cioran.
Due mondi, certo, ma una stessa visione della vita in quel loro condiviso gongolante nichilismo.
«Semplificando, si potrebbe dire che ho l’ossessione del nulla, o piuttosto quella del vuoto. Accetto di buon grado la qualifica di scettico, sebbene io sia un falso scettico. Se vuole sono uno che non crede in niente», dice Cioran in una delle interviste raccolte da Adelphi in Un apolide metafisico.
Parole, queste, che suonerebbero tutt’altro che estranee dette da Bufalino.
Il quale in una pagina intima confessa (ma potrebbe benissimo trattarsi di un bluff): «Ogni mattina, svegliandomi, l’inutilità d’ogni cosa mi stringe la gola come una mano»; e a proposito della sua salute, a un giornalista che gliene chiedeva conto, una volta rispose: «Che importa tutto questo a un uomo la cui moglie è vedova?».
Come Cioran, tuttavia, Bufalino finisce col trasmettere, paradossalmente, un perverso ottimismo, una efferata gioia di vivere tutta dovuta a quel caparbio andare a vedere come andrà a finire.
I suoi romanzi, racconti, poesie, aforismi girano attorno a un unico cardine: quello del disincanto cui di continuo fa da contrappunto lo stupore.
Insomma, quando il Pirandello di Uno, nessuno e centomila, incontra il Perec di La vita: istruzioni per l’uso, nasce un libro come Tommaso e il fotografo cieco o come Qui pro quo.
Interessante il turbinio di giudizi critici che la Imbalzano ha raccolto e, di fatto, contrapposto.
C’è di tutto in questo «Bufalino dalla A alla Z».
Dall’entusiastico battesimo di Sciascia (fu lui a lanciarlo con una intervista sull’Espresso) alle arzigogolate deduzioni del critico francese Michel Braudeau («uno scrittore che contempera la “claustrofobia” con la “claustrofilia” proprie della sua insularità con un’illuministica tensione cosmopolita che, di rimbalzo, torna nel motivo dei famosi viaggi in Sicilia di intellettuali stranieri»); dalle mimetizzanti parole di Angelo Guglielmi («lo scrittore si accosta alla memoria come a un “deposito di materiali morti con cui dar vita a un progetto di scrittura”; e i ricordi, dunque, per lui sono “cadaveri su cui sbizzarrirsi come in un’opera di maquillage”») alla squillante stroncatura di Renato Barilli, il quale accusa Bufalino di «iper-letterarietà» e di gratuita esibizione di abilità che si giova di una lingua «enfatica, ricalcata da qualche modello barocco più ancora che ottocentesco». Barilli è particolarmente duro con Bufalino, al punto di prendersela, in quell’articolo del 1988, con quelli che considera suoi sprovveduti lettori o, peggio, estimatori.
Un Bufalino «plurale», per usare un’ espressione a lui cara (L’isola plurale è il titolo del testo introduttivo di Cento Sicilie, antologia curata dallo scrittore con Nunzio Zago).
Al punto da trovare – così come suggerisce Ella Imbalzano – inaspettate concordanze con Umberto Eco, a proposito del Nome della rosa: «V’è una complessa consonanza tra Bufalino e il noto semiologo nel concepire intrecci romanzeschi che reinvestano generi letterari tradizionali e che, nelle nervature anche simboliche della suspense variamente atteggiata, offrono fondamentali problematiche dell’ esistenza».
Concorderebbe il Nostro? Essendo a conoscenza del suo positivo giudizio sul celebre romanzo di Eco, sono certo lui direbbe di sentirsene onorato.
Ma poi, al solito, scompiglierebbe le carte.
Scrisse, e sembra un epitaffio giusto per la sua tomba: «Non avevo in mano altro poker che di parole. Ho rilanciato. Hanno visto».
E questo vale per i suoi ammiratori come anche per i suoi denigratori.
L’incontro
Il secondo volume delle «Opere» di Gesualdo Bufalino (Bompiani, pp. 2.080, 38,40) sarà presentato a Comiso, nel cortile dell’ edificio in cui ha sede la Fondazione intitolata allo scrittore, sabato 27 settembre (piazza delle Erbe 13, ore 19). Con la curatrice del volume, Francesca Caputo, interverranno Matteo Collura, Vittorio Sgarbi, Nunzio Zago
*** ELLA IMBALZANO Di cenere e d’ oro BOMPIANI PP. 460, 14,50
Collura Matteo
Pagina 55
(23 settembre 2008)
Corriere della Sera