Cioran, l’assillo della fine

Nel 1986, data di questo articolo-intervista di Barbara Spinelli (nota giornalista, figlia di Altiero) su La Stampa, Cioran è praticamente sconosciuto in Italia, anzi diciamo che proprio da quel momento inizia ad essere conosciuto nel nostro paese (confrontare per approfondimenti in questo blog la Categoria “Cioran in Italia), anche grazie alle traduzioni di ben quattro dei suoi libri.

Definito curiosamente l’autore “più comico e più disperato” (“timido e splendente”) il ritratto umano e intellettuale che ne emerge è di quelli più autentici; ci sono tutti i temi principali da sempre prioritari in Cioran, c’è il suo sofferto rapporto con il pensiero, le sue analisi spietate del mondo, il suo stile inconfondibile (è la stessa sensazione, dice Spinelli, che si prova andando sull’altalena). E anche qualche aneddoto, tipo quello su Shakespeare, molto divertente…

Insomma un Cioran in splendida forma, sincero e scettico, anzi a suo dire “scettico fallito” perché il suo “dubbio è troppo voluttuoso per aspirare alla dignità di pensiero scettico”.

Cioran: l’assillo della Fine

INCONTRO A PARIGI COL PROFETA DELL’EUROPA E DELL’OCCIDENTE IN DECADENZA

«Il nostro destino è fatalmente suggellato Cioran» afferma lo scrittore più comico e più disperato- «Non sai più se ridere come un miscredente o pregare singhiozzando» – I nostri popoli «sono come L’Impero romano quando un Dio della Palestina lo mise in ginocchio» – Il suicidio: «Un pensiero dominante» – L’insonnia: «l’esperienza fondamentale della mia vita» – Il Diavolo «E’ chiaro che gli assomigliamo» – L’invidia: «E’ il motore della storia, e spiega tutto» Il terrorismo, il cristianesimo, il giudaismo

DAL NOSTRO INVIATO PARIGI — In un minuscolo appartamento di rue de l’Odèon, protetto da un complice portinaio, vive uno scrittore d’Europa timido e splendente. Il profeta della sua decadenza, come è stato scritto. Si chiama E.M. Cioran, di origine è romeno ma da almeno cinquantanni è Parigi la dimora che si è prescelto, è al culto della lingua francese che si è convertito per meglio esorcizzare — cosi dice — le sue «magiare malinconie». Le sue paure, anche, perché Cioran è frequentatore consumato di quella zona frontaliere dove l’angoscia scettica sconfina nel tormento mistico, «e tale è la noia metafisica che non sai più se ridere come un miscredente, o pregare singhiozzando». In genere lui prescrive entrambe le medicine. A seconda. Ma siccome è maestro della provocazione sempre ti sorprenderà: al miscredente consiglierà la preghiera, al bigotto il ghigno di Satana. Di se stesso, d’altronde, dice che è uno Scettico Fallito: «Il mio dubbio è troppo voluttuoso per aspirare alla dignità di pensiero scettico». E ride, subito dopo averti così spiazzato. Credevi di avere la parola per definirlo ed eccoti risospinto alla casella di partenza con i tuoi superflui aggettivi provvidenzialmente mozzati.

 L’altalena

Cioran è lo scrittore più comico e più disperato che mai mi sia capitato di incontrare. Capace di distrarti (porgendo torta di mirtilli e porto, aneddoti e paradossi) nel mentre che l’attenzione converge tutta intera sul pensiero di morte che «non è sopportabile», sul Nulla che non eviteremo, sul declino d’Europa che non arresteremo, sul suicidio che incessantemente manchiamo, Secondo me anche i suoi libri vanno letti in questa chiave: come sogghigni spirituali. Danno vertigine, ti schiacciano, e ti sollevano: un’analoga sensazione si prova nell’infanzia, nell’adolescenza (e se si fortunati nell’età adulta) su quell’incredibile invenzione tecnica che è l’altalena. Cioran non urla come il cavallo di Guernica, né come i calvi dementi di Munch. Ma come l’immobile Teseo che fissa il Minotauro, negli affreschi di Ercolano (Museo nazionale di Napoli). O come Franz Kafka, che Thomas Mann chiamava: «l’umorista religioso». L’editore Adelphi ha pubblicato alcuni suoi libri: Il Demiurgo cattivo, Squartamento, Tentazione di esistere, Storia e Utopia. Molto resta purtroppo da tradurre, compresa l’ultima raccolta di saggi letterari pubblicata da Gallimard: Esercizi di Ammirazione.
Questo mio incontro con lui non è un’intervista, né vedo in fondo come potrebbe. Nostalgico di un bene che Europa ha perduto — l’arte della conversazione — Cioran ha orrore delle interviste, che sono figlie di questo nostro secolo ossessionato dall’Inchiesta, dal Dibattito, dal Questionario che ti svela, e ti stana. Non è mai apparso in televisione. Tra scuse e inchini, chiede di tacere il suo nome di battesimo. Ma è tutt’altro che avaro. Nella conversazione mette tutto il suo pensiero, e la sua vita. Evoca le sue notti insonni, le sue crisi d’angoscia, l’ultima chiacchierata con la moglie del calzolaio, con la stessa serietà (o la stessa ironia) con cui parla dell’Occidente, del terrorismo, del cristianesimo, del giudaismo. Oppure di Holderlin e Emily Dickinson, poetessa che oggi predilige. In questo senso non è un filosofo. Non è un sistema di idee, quello che trascrive. E’ un pensatore notturno, tentato dall’enigma che precede la filosofia, e le religioni, e la poesia. E’ un pensatore notturno perché è tra crepuscolo e alba che Cioran ha avuto la rivelazione delle catastrofi, quelle interiori come quelle storiche. Che ha pensato la morte e il Male, aggrappandosi infine alla penna. O per meglio dire, è nell’insonnia: «Questo disastro fecondo che può anche annientarti, se non sei un mistico o un uomo in preda alle passioni. Se non sei maturo, per le tue notti».
Poco prima Cioran mi ha mostrato la sua camera da letto-studiolo, dove i mostri gli rendono visita: un quadratino dove letto e tavolo di lavoro si guardano come in uno specchio, una libreria caotica («dove io stesso non mi ritrovo, regolarmente butto tutto giù per terra per ritrovare il libro che ho perso»), vestiti sparsi come accade agli adolescenti, sulla parete accanto al letto un facsimile scarabocchiato di cui non rivelerà l’origine.

Shakespeare

Continua: «L’insonnia è l’esperienza fondamentale della mia vita. E’ da lì che tutto è partito, è da lì che provengo. Senza di lei credo che non avrei scritto un solo libro apprezzabile, ma con lei ho anche rischiato di sprofondare, perché non è facilmente sopportabile l’incontro dell’uomo con il proprio destino: con il tempo che si arresta e perde senso, con la solitudine quando diventa assoluta, con la superfluità infine evidente dell’azione. E tuttavia non c’è una sola cosa profonda, dell’uomo, che non abbia rapporto con l’insonnia. Con questa specie di intossicazione mentale, anzi fisiologica, grazie alla quale il cervello si accende ed entra per cosi dire in stato di ebollizione. Chi non conosce l’insonnia per me è un menomato, come mio interlocutore è liquidato in partenza.
«Io ho perso il sonno quando ero molto giovane, per sette anni è stato un vero incubo e per questo non ho mai imparato un mestiere. Nel paesino dei Carpazi dove vivevo, e dove insegnavo filosofia alla scuola superiore, mi prendevano per un idiota del villaggio. Ricordo che in quel tempo studiavo Shakespeare, ero letteralmente rapito da lui come poi sono stato rapito dalle Vite dei Santi.
«Ebbene un giorno decisi che da ora in poi avrei parlato solo con Shakespeare, perché altrimenti vivere era intollerabile. Vado dunque nel mio caffè preferito, come sempre dopo pranzo, e mi viene incontro il professore di ginnastica. “Dica, lei è Shakespeare?”, gli chiedo. E lui mi guarda smarrito, non sa più che pesci prendere, perché sa bene che io so che lui è il professore di ginnastica. Al che io, cocciuto: “Ah, dunque non è Shakespeare? Vada al diavolo allora, fuori di qui”. Capisco bene che questo delirio non poteva durare. Poco dopo lasciai la Romania».
Chiunque abbia letto Cioran ricorderà gli accenni al pensiero che di notte si fa «spasmo epilettico», alla scrittura come «arte per sventare il suicidio». Infatti il suicidio è un altro suo pensiero dominante: «Dominante ma consolatorio. Molti me lo rimproverano ma se sono apologeta del suicidio è perché l’idea del suicidio è un’idea positiva. E’ l’unica facoltà che ci rende eguali a Dio, il che è assai lusinghiero per l’uomo: grazie al suicidio io so di poter disporre di me stesso. Non sono stato io a crearmi, ma io posso distruggere la Creazione. Posso vincerla, non averne bisogno. E’ il solo modo di sopportare la vita, la vergogna, il successo che può capitarci. A ben vedere è una consolazione permanente. Se la consideri come quello che è, cioè l’unica via d’uscita, puoi anche farne a meno. Senza l’idea del suicidio diventeremmo pazzi. E’ per questo che ce l’ho con il cristianesimo. Il cristianesimo ha fatto di tutto per compromettere il suicidio, ha reso l’umanità infelice, ha cancellato il pensiero più originale dell’uomo: l’unico, forse, che lo rende differente dai topi».
Inevitabile, a questo punto parlare del Diavolo. Del Grande Distruttore: «E’ chiaro che gli assomigliamo, perché anche lui ha questa qualità, che è propria di chi ha l’inebriante potere di distruggere la creazione divina. Il Male è più profondo del Bene, grazie al Male puoi leggere nella realtà e nell’uomo, puoi dare un nome alla loro essenza che contiene più elementi demoniaci che divini. Non a caso le nostre energie più vitali le riserviamo alla raffigurazione del Diavolo, insomma di noi stessi. Dio è così lontano, così diffìcile da dire: non fa meraviglia che la sua immagine sia tanto impersonale».
Incantato dalle eresie, Cioran preferisce quella bogomila, nata in Bulgaria e ispiratrice dei catari in Francia e Italia: il mondo è creatura di Satanael, Dio è discolpato altrimenti infinita sarebbe la sua vergogna:
«In origine, quando era profondo e vivificato dalle eresie, il cristianesimo lo sapeva, e lo diceva: che il male sarà sulla Terra fino alla fine dei tempi, che l’umanità è condannata e che al peccato originale non si sfugge. Il senso della storia universale è d’altronde racchiuso nella Genesi: l’uomo pensante comincia con la Caduta, prima era una nullità. Era un abitante del paradiso, un cretino totale. Ma poi casca nella Storia, nel Tempo. E’ Caino che costruisce la Pòlis: la Città e la Politica». E il pacifico Abele? «Abele è la stagnazione. Non ha l’invidia in primo luogo, che è il motore della storia e spiega tutto».
Cosi, parlando di invidia, di omicidi e di peccati, veniamo al nucleo centrale del pensiero di Cioran: alla sua certezza del declino d’Europa, dell’Occidente, del cristianesimo: «Non vedo come potrebbero andare diversamente, le cose. Nella misura in cui siamo popoli raffinati, nella misura in cui abbiamo il senso del ridicolo, nella misura in cui non crediamo più in noi stessi al punto di non far più figli, il nostro destino è fatalmente suggellato. Anche nella misura in cui siamo democrazie libere, perché la libertà è un principio divino di essenza diabolica, che eleva l’uomo ma al tempo stesso lo usa, lo deresponsabilizza. Dostoevskij ha avuto un’intuizione straordinaria, quando ha detto che l’uomo è troppo debole per sopportarla. La schiavitù è il limite che lo rende forte, pericoloso, guerriero. «Le razze forti sono le razze degli oppressi. L’avvenire appartiene ai domestici, e gli ultimi conquistadores saranno i cannibali. Prenda il caso della Francia: per mille anni è stata la nazione più guerriera d’Europa, ha prodotto per prima una civiltà dell’ineguagliabile coerenza, una lingua venerata religiosamente. Ma Napoleone è stato possibile perché il popolo era semischiavo. Appena hanno avuto la libertà, i francesi hanno perso il gusto dell’avventura. «Oppure prenda la Chiesa cattolica. Chi si ucciderebbe oggi per il Dio cristiano, in Occidente? La Chiesa è stata potente quando i cristiani erano gli schiavi dell’Impero romano, dopodiché si è iniziata la discesa. Se Giovanni Paolo II appare diverso è perché i polacchi hanno qualcosa di primitivo. Credono in maniera più fervente. Un italiano non si comporterebbe come lui, avrebbe il senso del relativo. Io stesso cosa faccio, se non cercare l’impossibile “rapporto” con Dio? Lo invoco durante le mie insonnie, ma solo perché ho disperatamente bisogno di un interlocutore che non mi somigli troppo. Un Interlocutore Valido, per usare il nostro grottesco linguaggio».

Un mistero

Sinistro è il dialogo di Cioran con Dio. Incredulo, ma addolorato dall’irreparabile perdita: «A ben vedere Nietzsche sbaglia, quando annuncia che Dio è morto. In realtà Egli vive altrove, presso i vicini. Me ne sono accorto la prima volta nel ’36: ero a Parigi, e decisi di andare a un meeting comunista dove c’erano tutti i grandi dell’epoca. E chi vedo, ritratti in due gigantografìe alle spalle della tribuna? Vedo Stalin e Lenin. Due dèi stranieri. E’ a quel punto che mi sono detto: ecco che l’Occidente è al bivio. Se un Paese come la Francia non sa appendere al muro l’immagine dei propri rivoluzionari vuol dire che è affaticato storicamente. Un popolo è spossato quando non cerca più gli dèi in casa propria. «E’ come l’Impero romano, quando un Dio della Palestina lo mise in ginocchio. La gente che non ha studiato il declino di Roma non capisce nulla di quello che sta accadendo. E’ un destino che prefigura il nostro, nel Terzo Secolo a Roma c’erano un milione di abitanti di cui solo 60 mila erano propriamente romani. Gli altri venivano da contrade estranee a Roma, come oggi in Francia. E’ sorprendente la solerzia con cui imitiamo quell’esempio, dimenticandolo. Il destino di Vienna fa un po’ più impressione perché la sua scomparsa è recente: possiamo vedere con i nostri occhi cosa è divenuto dell’Austria».
Una volta appurato che la civiltà occidentale va verso il crepuscolo, tuttavia, resta un mistero da elucidare, la grande eccezione che conferma la regola, la storia che si contraddice:
«Resta l’inesplicabile destino degli ebrei, questa civiltà che ha traversato tutte le civiltà senza perire spiritualmente, sopravvivendo ad Atene e a Roma come senza dubbio sopravviverà alla moderna civiltà occidentale. Il dramma dell’ebreo è il dramma del superdotato, del primo della classe: nessuno alla lunga accetta la sua superiorità, in tutti i mestieri, in tutte le arti. Ma è anche un dramma che lo salva, perché se non ti senti al centro dell’universo, come popolo, sei perduto. Se non sei convinto di essere eletto, come si sente l’ebreo.
«L’ebreo ha disprezzo degli altri Dèi, il suo Dio non è ecumenico ma appartiene a lui soltanto. L’ebreo non fa proseliti, e questo lo sostiene in mezzo alle più orribili persecuzioni. Gli ebrei possono disperarsi ma poi pensano: siamo i soli a sapere leggere da cinquemila anni, e si consolano. Da sempre hanno saputo che il loro destino è tragico. La loro tribolazione è eterna, ma non fatale.
«Questo mi affascina nell’ebreo. Di lui dovremmo rammentarci, ogni volta che siamo tentati dalla capitolazione. Dalla sua incapacità di rinunciare. E’ importante ricordare che l’intellettuale ideale, in Europa, è stato l’ebreo tedesco, perché univa la profondità alla sottigliezza. Senza l’ebreo, il tedesco è ormai solo profondo, e sicuramente noioso: dominato dalla sua mania, che è quella di andare inutilmente fino in fondo, in tutte le cose».
Cioran ci tiene svegli, invocando la potenza della memoria. Memoria della storia e dei suoi misteri, delle nostre Cadute e delle nostre caparbietà. Memoria delle democrazie infine, questo principio, in se stesso sublime, ma proprio per questo minacciato dalla dimensione satanica della storia. La democrazia non è nata per realizzare una verità, una missione, «ma per conservare uno stile di vita» che vale magari la pena di difendere. Il destino del frutto è di imputridire, quello dell’uomo è di precipitare, ma ciò non toglie bellezza alcuna alla loro spavalda maturità: all’«intensità dell’essere», virtù difficile che insegna Cioran.

Barbara Spinelli

P.S.: Si può scaricare il pdf dell’articolo de La Stampa del 12/10/1986 tramite questo link: La stampa Cioran 1986 assillo fine-Barbara Spinelli.

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Un pensiero riguardo “Cioran, l’assillo della fine

  1. mi salverò questa pagina per leggerla con calma, mi interessa sempre molto questa figura mistica di personaggio strano…per ora grazie!
    un caro saluto, Giuseppe
    C.

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