Cioran e la castagna

In quest’articolo, uscito sul Riformista il 13 giugno 2010 (purtroppo senza firma), riprendo l’argomento Cioran/Thoma.

E’ lo stesso giornalista che scrive:

Si dirà che è pettegolezzo filosofico, roba da servitù origliante in cucina: lo ha detto la cerchia degli amici di Cioran, quando il libro è apparso in Germania. Ma la filosofia la fanno gli uomini, anche se è decaduto il costume di chieder conto ai filosofi della loro vita, quasi fosse una grossolanità. E invece la collazione tra le due fonti, la dottrina professata in pubblico e quel che è accessibile della vita privata, porta spesso lumi: purché non la si usi per un richiamo poliziesco alla coerenza – il più insipido dei valori – ma come occasione per gettare un occhio alla minuta esistenziale da cui prende forma un pensiero“.

“Occasione”  che, in maniera generale, può essere condivisibile, ma in questo caso il rischio del “richiamo poliziesco alla coerenza” è più che fondato.

Del resto molti sono convinti che la colpa (e il limite) di questo autore è stato proprio il mancato suicidio.

Di fatto, nonostante l’intenzione contraria, l’articolo (più del libro stesso di Thoma) è “roba da servitù origliante”: non mi sembra che aggiunga qualcosa al pensiero di Cioran, né che analizzi la “minuta esistenziale da cui prende forma un pensiero”.

E la “grossolanità” ondeggia, in agguato.

Emil M. Cioran e l’amore colto in castagna

Perché la tomba di Emil M. Cioran, al cimitero di Montparnasse, è ricoperta di castagne? Un indizio: c’è di mezzo una donna. E non è la compagna sepolta insieme a lui, il cui nome – Simone Boué – è inciso sulla lapide appena sotto il suo. C’è di mezzo una donna, e quando parliamo di donne e filosofi è lecito attendersi qualche aneddoto esemplare, di quelli in cui la vita pare pietrificarsi in allegoria: Aristotele cavalcato da Fillide, Talete nel pozzo sbeffeggiato dalla servetta tracia.

Nel nostro caso, la storia ha a che fare con una castagna.

Quando parliamo di donne e filosofi è anche lecito attendersi arie di guerra. Non che i saggi d’Occidente, da Platone in giù, siano tutti misogini impuniti. Alla fin fine la disciplina di cui si professano cultori – la Filosofia – è donna, seppur non delle più seducenti: è la veneranda matrona in là con gli anni che apparve a Boezio nel suo reclusorio, per consolarlo e scacciar via le Muse sgualdrinelle. Ma il meno che si possa dire dei filosofi è che con le allegorie se la cavano meglio che con le donne in carne e ossa. Il Petrarca del Secretum poteva ben discorrere con Agostino sotto gli occhi di una sfolgorante signora, la Verità, e mantenere l’aplomb che si conviene allo stoico cristiano; più difficile gli era serbare il contegno a cospetto delle “belle membra” di Laura.

Capita poi che la collisione con una donna empirica, insomma una signorina non solo concettuale ma munita di tutta la res extensa del caso, si riveli una nemesi fatale, il soffio che butta giù i castelli di carte eretti in anni di ruminazione solitaria. Auguste Comte incontrò Clotilde de Vaux e non se ne riebbe: il padre del positivismo impazzì senza rimedio, fino a costruire attorno all’amata un culto strambo e pittoresco, con tanto di teologia e calendario liturgico. Qualcosa di simile – toutes proportions gardées – accadde a Emil M. Cioran quando, ormai settantenne, si vide recapitare da Colonia la lettera di una giovane ammiratrice, la bella insegnante di filosofia Friedgard Thoma.

Era il febbraio del 1981.

Quando riceve la lettera fatale, Cioran è il più arcigno dei negatori, il più caparbio dei disperati: il mondo, Dio, la vita, l’amore, la virtù, la ragione, il progresso, nulla scampa agli oltraggi di un pensiero che pare sporgersi oltre Sade e Leopardi, una “strage delle illusioni” distillata in aforismi esulceranti e perfetti, in cui la lingua di Valéry è maneggiata con la perizia dello scorticatore. Ogni libro, diceva Cioran, è un suicidio differito. Basta scorrerne i titoli per trovarne conferma: Al culmine della disperazione, Squartamento, Sommario di decomposizione, L’inconveniente di essere nati. È un aforisma di quest’ultimo libro ad ammaliare Friedgard e a spingerla a scrivere, timida e impudente, una lettera all’autore. Ed è qui che comincia la nostra storia, che la stessa Friedgard ha raccontato in un volumetto pieno di lettere e fotografie, Per nulla al mondo (L’Orecchio di Van Gogh).

A quel primo messaggio Cioran risponde subito, augurandosi che la donna – dovesse per caso trovarsi a Parigi – vada a trovarlo. L’imbeccata stuzzica la civetteria di Friedgard, che gli manda una seconda lettera, allegando stavolta una foto: si avvia così la preparazione del blind date filosofico, dove presto il dialogo di idee cede il passo alle schermaglie di un comune corteggiamento a distanza. Lui le propone di andare a spasso per Parigi, lei suggerisce che lo facciano mano nella mano. Quando la donna arriva finalmente nella città di Cioran, Simone Boué è fuori, in Vandea. Friedgard propone un ristorante, Emil la invita a cenare in casa. Poche ore, e il filosofo del gran rifiuto, l’aforista rattratto e spinoso come un riccio di castagna, è preda del più comune delirio amoroso, con febbri e gelosie assillanti. «Ho osato considerarmi più distaccato del Buddha, e ora vengo punito per le mie illusioni. Ho recitato troppo a lungo la commedia della saggezza», le scrive. Che sia il principio di un’abiura filosofica?

La liaison – ironia degli amori filosofici autunnali – dovrà restare “platonica”. Friedgard ha quarant’anni di meno, e un fidanzato. Lei e Cioran condivideranno passeggiate tra i boulevard parigini, pranzi, musei. Simone Boué sa tutto, tollera, diventa perfino amica della rivale più giovane con cui il compagno scambia lunghe lettere fitte di citazioni, note di lettura, soprattutto telefonate. E solo chi ricorda i sarcasmi di Cioran contro le illusioni dell’illuminismo potrà cogliere l’elemento esilarante di confessioni come questa: «Da quando la conosco credo nel PROGRESSO – per via del telefono». Indurre Cioran a scrivere “progresso” in lettere capitali: tanto può una donna!

Si dirà che è pettegolezzo filosofico, roba da servitù origliante in cucina: lo ha detto la cerchia degli amici di Cioran, quando il libro è apparso in Germania. Ma la filosofia la fanno gli uomini, anche se è decaduto il costume di chieder conto ai filosofi della loro vita, quasi fosse una grossolanità. E invece la collazione tra le due fonti, la dottrina professata in pubblico e quel che è accessibile della vita privata, porta spesso lumi: purché non la si usi per un richiamo poliziesco alla coerenza – il più insipido dei valori – ma come occasione per gettare un occhio alla minuta esistenziale da cui prende forma un pensiero.

Perché, allora, privarsi delle scintille sprigionate dal cozzo tra vita e filosofia? Le lettere d’amore di Cioran ci consentono di mettere sotto lente uno degli assilli del suo pensiero: la Donna, che il filosofo dell’adolescenza interminabile pare incapace di considerare nella sua semplice umanità. È invece di volta in volta un oggetto sacro o contaminante, santa o puttana, urania o pandemia, “animale morente” o spaventapasseri allegorico, ricacciata dallo gnostico Cioran nel mondo corrotto della carne o sospinta nel cielo della metafisica.

Racconta Cioran in Esercizi di ammirazione di quando, sedicenne, sorprese la ragazzina di cui era innamorato tra le braccia di un compagno di scuola più scaltro. Quarant’anni dopo, confessava, quell’immagine aveva ancora la vivezza di un ricordo traumatico. Certo, è una scena comune a molte adolescenze. Ma se il ragazzino ordinario accantona queste prime offese e passa oltre, il tenero filosofo in erba segue vie più tortuose: si abbevera a Sesso e carattere di Otto Weininger, il grande misogino morto suicida a vent’anni, e identifica nella Donna il nemico metafisico. Il pensiero diventa allora strumento di tortura e di vendetta, una forma raffinata di esprit de l’escalier.

L’opera di Cioran, va da sé, non si può ridurre al contraccolpo di qualche scacco adolescenziale. Il risentimento è la materia grezza di innumerevoli creazioni, è vero, ma ciascun pensatore, poeta, artista lo rifoggia alla sua maniera: avviene una cristallizzazione, un processo simile a quello che Stendhal vedeva all’opera negli amori nascenti, come quando si cala un rametto in una miniera di sale e lo si fa emergere adornato di diamanti. Calata nelle cave di risentimenti antichi, la mente di Cioran ne emerse adorna dei suoi aforismi preziosi, che sono come quei pugnali sacrificali babilonesi incastonati di gemme. «La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari», diceva Cioran, che ha affinato il suo stile fino a farne uno stilo, e che dalla materia vile del rancore ha cavato un’aurea filosofia del distacco, un cupo buddhismo occidentale senza liberazione.

Ma per l’amore, quando sopravviene, Cioran non ha parole; la sua lingua, allenata a fustigare le illusioni e a macerarle nel sarcasmo, diventa kitsch come quella di noi innamorati comuni: vagheggia di divinità fatali, di isole deserte. Tra i sogni d’amore che coltiva nel suo tardo autunno c’è – accanto a quello di sposare Friedgard secondo il rito ortodosso, cinti entrambi di corone – quello di esser seppellito con lei per continuare in eterno la conversazione: «Avrei così tante cose da raccontarle, tante, ancora non dette».

Cioran è sepolto con Simone Boué, morta annegata due anni dopo di lui. La compagne – così lui la chiamava – aveva predisposto tutto, e aveva acquisito un posto per entrambi a Montparnasse. Cioran lo sapeva. Nell’ottobre del 1992, rabbuiato, vaga con Friedgard in cerca della sua futura tomba, e quando pensa di averla trovata lancia due latrati terrificanti. Di lì a poco sarà sopraffatto dall’Alzheimer.

Sulla sua lapide, quando l’ho visitata – era il novembre di alcuni anni fa – c’erano fiori, una rosa rossa, monete, sassi, rametti, lettere, persino un biglietto del métro, uno dei lilas che gli amanti di Serge Gainsbourg lasciano sulla tomba dello chansonnier, simbolo del passaggio all’altra vita in una celebre canzone.

Soprattutto, c’erano castagne.

«Peccato cha a Pasqua nessuna castagna cadrà ai nostri piedi», aveva scritto Friedgard a Cioran. Era un messaggio in codice, un’eco dell’aforisma che la spinse a scrivere la prima lettera, quando non poteva immaginare che sarebbe stata lei, la castagna sulla strada di Cioran: «Mentre passeggiavo ad un’ora tarda in quel viale alberato, una castagna cadde davanti ai miei piedi. Il rumore che fece spezzandosi, l’eco che suscitò in me, e un brivido gelido sproporzionato rispetto a quell’infimo incidente, mi sprofondarono nel miracolo, nell’ebbrezza del definitivo, come se non vi fossero più domande, solo risposte. Mi sentivo ebbro di mille evidenze inattese, di cui non sapevo che fare… Fu così che mancai d’attingere il supremo. Ma credetti bene di continuare la mia passeggiata».

Pubblicità

Un pensiero riguardo “Cioran e la castagna

  1. Ho ordinato *Sillogismi dell’amarezza* e *Al culmine della disperazione*….non possono mancare nel mio repertorio di letture di Cioran!
    Grazie per questi splendidi articoli di cui mi fai partecipe, Giuseppe.
    C.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...