Cioran, l’antimoderno

Ho una specie di orrore per la cosiddetta conversazione intellettuale. Sono sempre vissuto al di fuori di quell’ambiente“.

Coerentemente con questa “specie di orrore”, Cioran rifiuterà prestigiosi premi letterari (tranne il premio Rivarol, per opportunità economica, nel 1950 con Précis de décomposition).
Del resto, dichiara a Giuseppe Scaraffia in questa intervista comparsa nel 1997 (in occasione della pubblicazione dei Cahiers 1957-1972) sul Corriere della Sera:
Non sono uno scrittore, sono soltanto una persona che riflette su certi problemi, ma non scrive romanzi o racconti“.

Per alcuni critici (attenti più alla etichetta che alla sostanza) non sarà nemmeno un filosofo, solo perché non ha elaborato quello che si definisce un “sistema filosofico”.

La verità è che Cioran lo è indubbiamente, perché si è scontrato con gli abissi e le domande più scomode dell’essere umano.
E in più è uno filosofo con uno stile da grande letterato, “erudito e fulminante”.
Jean Montenot su L’Express (01/04/2011) lo ha definito una “personalità gentile e discreta [..] che esprime in un francese sobrio e conciso tutto il tragico e l’irrisorio dell’esistenza umana” .

Può essere che non abbia davvero inventato nulla, ma lo ha fatto in modo egregio.

AUTORITRATTI UN’ INTERVISTA INEDITA CON L’ AUTORE ROMENO SCOMPARSO NEL ’95 DI CUI SONO USCITI IN FRANCIA I ” CAHIERS ” DAL 1957 AL 1972: LA GIOVINEZZA, LE PASSIONI LETTERARIE, IL PROGRESSO

CIORAN Le confessioni di un antimoderno

“La scoperta di Dostoevskij è stata capitale, il suo lato morboso mi piace enormemente: “Ho molto amato Proust: con il suo genio ha trasformato dei fantocci aristocratici in personaggi”.
Era il 1989 e il bicentenario della rivoluzione autorizzava i camerieri del piu’ antico caffè di Parigi, Procope, a servire piccole Bastiglie di pasta traforata da cui spuntava un pulcino arrostito.
“Ho una specie di orrore per la cosiddetta conversazione intellettuale. Sono sempre vissuto al di fuori di quell’ambiente”, puntualizzava Emile Cioran, assaggiando i piatti con distratta golosità. “Trovo che sia piu’ interessante parlare con la gente qualunque. Per conoscere un Paese non bisogna frequentare persone molto dotate, ma i mediocri. E’ attraverso di loro che si può valutare il valore, il livello morale di una nazione”.
I tratti marcatamente slavi del viso di Cioran contrastavano con la squisitezza settecentesca del linguaggio.
“Perché in fondo è l’intellettuale non dico fallito, ma quello senza qualità, che ti fa capire la media. Una persona molto dotata è sempre una specie di eretico in rapporto alla nazione”.
E nessuno era più eretico di quel dandy moralista sperduto nel parossismo della modernità.
Nell’abito di flanella chiara, Cioran era elegante come al solito.
Nei meravigliosi Cahiers 1957 – 1972 (usciti un mese fa da Gallimard, pp. 1.000, fr. 220), incrocio di aneddoti e aforismi fulminanti, racconta che nel 1970 era stato interrogato da un esattore inquisitorio.
“Lei è ben vestito. Il suo completo è nuovo”. “Sono gli amici che mi vestono”. “E per mangiare?”. “Ho il vantaggio di avere una gastrite. Sono a dieta”.
Si sapeva che il grande pessimista faceva la spesa personalmente, al mercato Saint-Germain, insofferente alle file davanti alle bancarelle.
Avevamo parlato del suo raffinatissimo francese.
“Io sono nato in Transilvania, i miei genitori parlavano perfettamente l’ungherese, un po’ di tedesco, ma non conoscevano affatto il francese. Quando sono andato a Bucarest, a studiare filosofia, mi sono trovato in mezzo a gente che parlava perfettamente francese, soprattutto le ragazze. Io ho sofferto immensamente di questo stato d’inferiorità. Non ne ero consapevole, ma sicuramente il mio accanimento, il fatto di avere scritto tutti i miei libri quattro o cinque volte viene da questo complesso d’inferiorità della mia giovinezza”.
Cioran rifiutava di farsi considerare uno scrittore.
“Non sono uno scrittore, sono soltanto una persona che riflette su certi problemi, ma non scrive romanzi o racconti. Però la scoperta di Dostoevskij è stata assolutamente capitale per me. Penso che dipenda da certi stati d’animo personali, ma il lato morboso di Dostoevskij mi piace enormemente”.
Aveva evocato il trauma del suo incontro con Celine: “Non ho letto molto della sua opera. Ho solo un grande ricordo della mia prima lettura di un suo testo. Stavo facendo il servizio militare in Romania e un ufficiale mi aveva passato il Viaggio al termine della notte. Quando l’ho finito – ero al quarto piano di una caserma – la mia prima reazione e’ stata di buttarlo dalla finestra, tanto mi aveva sconvolto”.
Cioran parlava, o piuttosto tempestava garbatamente, a tratti le parole si accavallano, sino a diventare semi incomprensibili, annunciando la malattia che l’avrebbe colpito. “La mia teoria è: tutto quel che si fa di vivo nasce da qualcosa di meschino, perfino gli atti eroici sono l’emanazione di una melma interiore. Quel che è puro non è vivo, non agisce. Invece tutto quel che è impuro è pieno di vita. Non è una constatazione cinica. E’ soltanto che la vita è un fenomeno impuro. Non si tratta di una concezione pessimista, è un fatto che bisogna accettare: il peccato originale non è affatto originale, è contemporaneo, coinvolge ogni essere, la vita in generale e soprattutto la storia, che è solo lo svolgimento di questo peccato delle origini”.
Per un’ironia della sorte, Cioran era seduto sotto il ritratto di Rousseau.
“Il grande problema del dopoguerra è quello di sempre, ma che si è accentuato alla fine della guerra, è il senso della storia. Qui si entra subito nell’ideologia, ma io vorrei evitare questo terreno. Mi sembra che l’ossessione della storia sia un problema della decadenza. Se si fa la storia, non se ne parla; la storia in tal caso è un’esplosione. Cominciare a riflettere sul senso della storia, sul vicolo cieco della storia o sulla catastrofe o sulla soluzione della storia, è l’indizio di una specie di caduta, di una svolta che certamente è spaventosa”.
Dopo aver scherzato sulle innumerevoli varianti dei piatti “alla Robespierre” del menu, aveva continuato:
“La storia è il terreno su cui i popoli si compromettono successivamente, uno dopo l’altro. Tutta la storia universale consiste nell’emergere delle nazioni che vogliono affermarsi a spese delle altre. E naturalmente ci sono grandi successi, che però finiscono male, perché ogni nazione ha il suo momento, o più momenti, ma il suo destino è limitato nel tempo. A partire da un dato punto si può dire che un popolo si disonora o si compromette. Tutta la storia universale e’ un susseguirsi di scacchi grandiosi o penosi, ridicoli e grotteschi”.
Fissando, senza vederla, una tavolata di giapponesi che fotografava pervicacemente quel locale storico, Cioran aveva specificato: “Tutti convergono verso una catastrofe finale, ma mi sembra impossibile che ci sia un senso per queste ascese e questi crolli. Quindi la filosofia mi sembra un esercizio molto interessante, ma in qualche modo artificioso, perché non si può trovare la diagnosi di questa tremenda malattia che è il tempo, il divenire storico. L’unico modo per cogliere la storia è ammettere una specie di immanenza del tragico nel divenire, ammettere che il divenire è di natura tragica, o meglio demoniaca. Del resto il cristianesimo ha dato una risposta, sostenendo che il diavolo è il principe di questo mondo e sarà il padrone del mondo fino alla fine dei tempi: allora il mondo scenderà all’inferno e non si sa bene cosa gli accadrà, ma la fine del mondo è la fine di Satana. E’ una concezione quasi inaccettabile per popoli, come quelli europei, vissuti per centocinquant’anni nell’idolatria del progresso. Il cristianesimo è falso in assoluto e in quanto religione, ma la sua tragica diagnosi della storia è vera”.
Poi, con uno dei suoi tipici salti di tono, aveva aggiunto: “In fondo, l’unico modo per accostarsi ai grandi eventi, come la rivoluzione dell’89, è leggere le memorie dei testimoni dell’epoca”.
La “Charlotte Corday”, un tremolante budino affogato in una crema vermiglia, in omaggio alla morte di Marat, aveva stimolato Cioran sull’attualità.
“Francois Mitterrand non è di sinistra, è un ex uomo di destra. E’ un cinico, ma è un abile, scettico. Cambia continuamente, vive nell’immediato…”.
Aveva sorriso compiaciuto, per poi vibrare il colpo finale: “Preferisco infinitamente un tipo come Mitterrand che cambia spesso idea a qualsiasi ideologo. Le catastrofi della storia sono causate da chi è troppo convinto”.
Per un miracolo di cortesia, la torrenziale eloquenza di Cioran lasciava sempre spazio a una replica, a una domanda.
Tuttavia aveva esitato a rispondere sui nobili amici di Marcel Proust, trasfigurati nella Ricerca del tempo perduto.
“Essendo stato in gioventù un grande lettore di Proust, volevo vedere che cosa restava di quell’aristocrazia. Erano dei fantocci; è stata un’esperienza assolutamente deludente. E’ stato proprio frequentandoli un po’ che ho capito il genio di Proust: aveva trasformato delle nullità in dei grandi personaggi…
In fondo cos’e’ uno scrittore? Uno che esagera smisuratamente e da’ delle grandi proporzioni a quel che non ne ha, è uno che inventa la realta’.
E’ molto interessante, dal punto di vista della psicologia proustiana, perché è quasi inconcepibile che tipi simili possano costituire la trama di un grande romanzo; ma è proprio questa la letteratura: il senso, la voluttà della dismisura”.
Ci eravamo già salutati, quando era tornato indietro, sotto la pioggia, per ribadire, soddisfatto: “Gli amici di Proust erano nulli!”.

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“Il rimorso è la mia grande vitalità, la mia grande risorsa!” Traduciamo alcuni aforismi di Cioran raccolti nei “Cahiers 1957 – 1972” editi in Francia da Gallimard.
“Il fanatico è spesso un asceta. Mi piace mangiare – come a tutti gli uomini senza profonde convinzioni”.
“Ero fatto per l’insignificanza e la frivolezza, e i dolori mi sono caduti addosso e mi hanno condannato alla serietà, per cui non ho il minimo talento”.
“Il rimorso è la mia vitalità, la mia grande risorsa!”
“Aveva preso l’abitudine di piangere; da quel momento tutto le è andato in porto. Si arriva facilmente ai propri fini, purché si abbia un metodo”.
“La morte del calunniatore. Ci si sente più soli. Mi ero abituato alla sua presenza, sentiva l’eco degli orrori che diffondeva, era quasi gradevole l’atmosfera d’infamia che si sforzava di creare intorno a me e aveva il vantaggio di isolarmi un po’ dai miei simili. Ed ecco che d’un tratto non c’è più. Non c’è più nessuno che vegli su di me, che pensi soltanto a me!”
“L’immensa vanità dei falliti, che non sono stati riconosciuti e non scordano per un istante i loro meriti. Quant’è piu’ tollerabile la vanità della persona riuscita, che molto spesso, stanca del successo, cerca di minimizzarlo!”
“La cosa più grave e più frequente non è uccidere, ma umiliare. Forse è la vera crudeltà morale. La si riscontra proprio in chi è stato molto umiliato. Non riesce a perdonare né a dimenticare; ha una sola idea: umiliare a sua volta. E’ un torturatore ingegnoso che sa nascondere il suo gioco e si vendica senza che lo si possa accusare di disumanità”.
“Voglio scrivere un saggio sulla condizione che preferisco, quella di sapere di non pensare. La pura contemplazione del vuoto”.
“Cenato ieri sera dai Bosquet con Beckett che non ha quasi aperto bocca e se ne è andato precipitosamente alla fine del pasto. E’ stato esasperato dalla loquacità di Jacqueline P.? Non lo so. Era ubriaco? E’ penoso vedere qualcuno che si rispetta comportarsi odiosamente. Per tutta la sera ha fatto dei gesti bruschi, che mi hanno letteralmente fatto star male. Mi ha trasmesso la sua angoscia o la sua esasperazione – mi ha rovinato la serata”.

Scaraffia Giuseppe

Pagina 31
(11 dicembre 1997) – Corriere della Sera

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