Cioran e la morte dell’utopia

Quand’è che la gente si agita? Quando crede nell’ avvenire: è questa l’utopia. Ma quando si dubita dell’avvenire, quando la gente non trova risposta ai propri interrogativi, allora l’utopia è praticamente impossibile.

Cioran, in questa intervista comparsa nel 1988 ne “La Repubblica”, rilasciata a Benedetta Craveri, non parla in realtà soltanto del tema dell’utopia.
Ci sono riflessioni sul suo essere scrittore ormai famoso (“Non è tanto l’ aspetto filosofico dei miei libri che piace ai giovani, quanto piuttosto il mio cinismo”) e sulla scrittura in generale.
C’è anche una difesa a Eliade, dopo le critiche per i suoi rapporti con la Guardia di Ferro:
“se esisteva al mondo una persona apolitica, che non si interessava, non capiva niente di politica, che non leggeva nemmeno i giornali, questi era Eliade”.

Anche lui successivamente sarà travolto dalle stesse accuse del suo amico rumeno, in particolare dopo il libro di Laignel-Lavastine (in Italia pubblicato dalla Utet nel 2008 con il titolo “Cioran, Eliade e Ionesco. Il fascismo rimosso”).
Forse la frase “trovo tutte queste polemiche piuttosto ridicole e assurde” è anche un’autodifesa di un pensatore che può a ragion veduta affermare:
“Viviamo in un’ epoca in cui il disinganno è generale. In questo, i miei libri erano in anticipo di vent’anni.”

CIORAN O LA MORTE DELL’ UTOPIA

PARIGI

In una mansarda luminosa che si affaccia sui giardini del Luxembourg, il rumeno E.M. Cioran, oggi considerato da molti il più grande prosatore in lingua francese, accetta di parlare di sé in occasione della imminente apparizione, presso l’editore Adelphi di Esercizi di ammirazione (traduzione di Mario Andrea Rigoni e Luigia Zilli, pagg. 210, lire 12.000). D’abitudine Cioran si difende strenuamente dalle interviste, ma, quando capitola, ciò avviene all’ insegna di una affabilità infinita.
L’arte della provocazione e del paradosso con cui lo scrittore incalza, libro dopo libro (tra i titoli apparsi in Italia ricordiamo La tentazione di esistere, Storia e Utopia, Squartamento, Il funesto demiurgo), i suoi lettori, smantellando ogni possibile illusione.
La vita è il più grande dei vizi, la vecchiaia la punizione di aver vissuto, ci si ammazza sempre troppo tardi, diventa, nella sua conversazione, gioco di seduzione, si stempera in scherzo e autoironia.
Sono un epilettico senza epilessia, mi accoglie, ridendo.
Cioran sembra avere assorbito qualcosa della grazia mondana dei memorialisti settecenteschi che tanto ammira.
Di stampo anglosassone durante la guerra, a Parigi, si è immerso nella letteratura inglese come in un bagno salutare è invece il vezzo che lo ha portato a cancellare il proprio nome di battesimo dietro le iniziali E.M.: come appunto, mi dice, E.M. Forster.
E anglosassone è anche il sorridente understatement con cui fronteggia una celebrità che, esplosa dopo una lunga indifferenza, cresce di anno in anno, assumendo sempre più i connotati del mito.
Nel giro di un anno sono apparsi in Francia, oltre agli Exercices d’admiration, altri due suoi libri: la traduzione dal rumeno di Des larmes et des saints, pubblicato a Bucarest nel 1937 (Editions de l’Herne) e Aveux et anathèmes (Gallimard); recentissima è poi l’ uscita, presso Gallimard, dell’album di fotografie scattate da Irmeli Jung: Cioran, l’élan vers le pire.
Il settimanale francese L’Express ha valutato intorno ai diecimila il numero di lettori, seguaci fedeli, del maitre à douter.
Esercizi di ammirazione è una galleria di ritratti di scrittori che Cioran ha amato e, sovente, conosciuto, come Eliade, Michaux, Beckett, Ceronetti.
Ma in Cioran l’ammirazione non tende alla celebrazione, acuisce piuttosto lo sguardo e rivela equivoci, disinganni, fallimenti, vuoti: indizi tanto più significativi quanto più dissimulati dietro il prestigio dell’ intelligenza.
Forse è il solo Beckett a ricevere un omaggio senza riserve; ma la definizione che Cioran ha coniato per lui, un distruttore che aggiunge all’esistenza, non potrebbe servire, a sua volta, da epigrafe a tutta l’opera del pensatore rumeno?
Così, a ben guardare, ognuno di questi ritratti rinvia a un frammento di autoritratto, ed è inevitabile che la nostra intervista finisca per avere come oggetto lo stesso Cioran.

Cioran, nel suo saggio su Borges lei scrive: non mettere radici, non appartenere a comunità di sorta, ecco il mio motto. Eppure, da cinquant’ anni, e più esattamente dal 1937, lei ha scelto di vivere a Parigi. Le due cose non sono in contraddizione?

E’ vero, la mia idea è che bisogna essere senza patria, se si vuole essere liberi intellettualmente.
Avere una patria significa inevitabilmente darsi dei confini, dei limiti. Ma, detto questo, lei deve pensare che, per un rumeno come me, Parigi equivaleva all’universo. E’ impossibile capire cosa fosse la Francia per la Romania prima della guerra, era una specie di ossessione collettiva.
L’influenza francese era colossale a Bucarest: tutti i librai avevano le ultime novità parigine e c’era persino un quotidiano scritto interamente in francese. In fondo, il sogno di ogni rumeno era di venire a Parigi per sprecare la propria vita. Ed è quanto, in effetti, è successo a quasi tutti. Anche io sono venuto qui spinto da questa aspirazione inconscia dei miei compatrioti, che ha continuato ad esercitare un grande fascino su di me: Parigi come il luogo ideale per il proprio fallimento.

E oggi non rimpiange di non essere riuscito a fare di sé un fallito?

Sarebbe stato molto meglio e, forse, più facile, ma di falliti se ne vedono talmente tanti che, francamente, passa la voglia.

Ma, Cioran, lei non crede che la patria di uno scrittore sia la lingua in cui ha scelto di scrivere?

Certo. Infatti a Parigi ho continuato a scrivere nella mia madrelingua per anni e anni.
Continuavo a leggere il più possibile libri in rumeno, quantunque fosse difficilissimo trovarne.
E ogni giorno, prima di mettermi a scrivere, leggevo una pagina della Bibbia in rumeno, a scopo propiziatorio.
Perché il rumeno, con la sua curiosa mescolanza di latino e di slavo, non può dirsi una bella lingua ma, a differenza del francese, è una lingua straordinariamente poetica.

E poi cosa è successo, com’è passato al francese?

Di punto in bianco, alla fine della guerra, mi sono reso conto che accanirsi così, con la lingua di un paese con cui avevo tagliato i ponti, era una stupidaggine. Allora ho perpetrato un tradimento totale nei confronti della mia madrelingua e mi sono messo a scrivere, pensare e sognare in francese. E’ così che è cominciato un combattimento strenuo con una lingua difficilissima; perché il francese non è, come si dice, la lingua delle idee chiare e distinte, è, in grado supremo, la lingua delle sfumature. A ripensarci bene è stata una fatica mostruosa, ma in fondo la vita è sopportabile solo se ci si misura con imprese smisurate.

Negli Esercizi di ammirazione leggiamo che scrivere è un vizio di cui ci si può stancare. Qual è il vizio che la induce a scrivere?

C’è chi scrive per sostenere una tesi, c’ è chi scrive per vanità, io ho sempre e solo scritto per sfuggire a un’angoscia profonda, per combattere una sorta di annientamento interiore. Quando sono in mezzo alla gente sono socievole, allegro, ma di temperamento sono un depresso. Ora non scrivo quasi più, ma per me scrivere è sempre stato un tonico, una terapia.
Dopo avere scritto una pagina, mi sorprendevo a fischiettare.
Sono certo che se non avessi scritto sarei già morto da moltissimo tempo.
Ricevo spesso delle lettere di giovani disperati e a tutti dò lo stesso consiglio: quali che siano i risultati artistici, scrivete.
Scrivere può salvarvi.

Eppure, Cioran, lei ha affermato anche che scrivere ha un senso solo in quanto provocazione.

Per me provocare significa svegliare, riscuotere chi legge dal torpore. Perché, in fondo, la gente dorme.
E questo lo si può fare solo a condizione di provocare, di scatenare una reazione nel lettore.
Non vale la pena di comunicare una verità. Si scrive per creare un po’ di disagio nella coscienza della gente, per costringerla a riflettere sulla natura degli uomini, sulla religione, sulla storia. Per indurla a interrogarsi sul senso di tutto questo.
Se si è ossessionati, come lo sono stato io, dalla morte, dal nulla, dal vuoto, è inevitabile pensare che ciò che esula da questo sia secondario.

Nel saggio su De Maistre è lei a reagire alle provocazioni dell’autore delle Serate di San Pietroburgo; ma si ha l’ impressione che, tutto sommato, pur eccellendo nel gioco del paradosso, lei non ami essere eccessivamente complice di quello altrui.

Lei ha ragione, e ritengo che il saggio su De Maistre sia il mio testamento politico. De Maistre è un pretesto di cui mi sono servito, perché è uno scrittore estremo in tutto, grandissimo, ma anche assolutamente demente. La mia è una analisi che tende a una riflessione molto pessimista della storia, dove non ci sono né ipotesi né conclusioni.
Un testo inutilizzabile, vuoi da sinistra che da destra.
Quel che mi interessava soprattutto in De Maistre erano le sue idee sulla rivoluzione.

Però, in quel saggio, che è del 1957, quando scriveva che fra il paradiso primordiale delle religioni e quello finale delle utopie c’è tutto l’intervallo che separa un rimpianto da una speranza e un rimorso da un’ illusione, lei lasciava supporre che la sua simpatia andasse piuttosto in direzione dell’utopia, della rivoluzione.

A quell’epoca ero molto di più dalla parte della rivoluzione di quanto lo sono oggi.
Poi ho fatto molte letture che mi hanno indotto a guardare la rivoluzione sotto un altro aspetto.
Per esempio, per capire cos’è stata la Rivoluzione francese, non bisogna leggere i libri di storia, bisogna leggere i memorialisti del tempo, come l’abbé Morellet. E’ lì, nella cronaca quotidiana, che si misura tutta l’atrocità di quel che è successo.

Si aspetta qualcosa di interessante dal Bicentenario della Rivoluzione?

No, assolutamente niente.

Lei ha scritto che prendere posizione è una disgrazia a cui nessuno sfugge. Recentemente la pubblicazione del secondo volume delle Memorie postume di Mircea Eliade (Gallimard) da cui emergono i legami di Eliade con la Guardia di Ferro, il movimento di estrema destra che si affermò in Romania, nel 1938 ha scatenato un notevole scalpore (vedi Edgar Reichmann, Le Monde des Livres del 15 luglio). Lei che è stato amico di Eliade, che giudizio dà su questa sua presa di posizione politica?

Senta, trovo tutte queste polemiche piuttosto ridicole e assurde.
Prima di tutto durante la guerra, quando la destra era al potere, Eliade non viveva più in Romania.
Poi, se esisteva al mondo una persona apolitica, che non si interessava, non capiva niente di politica, che non leggeva nemmeno i giornali, questi era Eliade.
Eliade era un intellettuale allo stato puro, viveva unicamente nei libri e per i libri.
Per lui produrre era quello che contava.
Lavorava come un pazzo, senza contatti con la vita: non è un caso che sia finito in America.

Chiacchierando poco fa, mi accennava, però, a una incomprensione tra lei e Eliade.

Voglio spiegarle in cosa è consistito il conflitto tra me e Eliade.
Ho sostenuto, in un saggio, che Eliade era un uomo che non aveva un sentimento profondo della religione, perché non si può parlare di senso religioso se non c’è un dibattito, un dramma intimo tra l’uomo e Dio.
Secondo me, Eliade è rimasto esterno a questo dibattito. E’ stato pervertito dalla molteplicità delle religioni che ha dovuto affrontare, e ha confuso la sua curiosità religiosa con l’esperienza religiosa.
E’ questa l’obiezione che gli ho sempre mosso, fin dai tempi della Romania: che senso ha passare la propria vita a redigere il censimento degli dei, se non si ha un rapporto diretto con l’assoluto?
Questa mia tesi gli dava un immenso fastidio, ma non mi ha mai veramente risposto, se non, indirettamente, in un’intervista rilasciata poco prima di morire. Davanti alla consapevolezza della fine imminente, davanti al vero problema, ha contestato le mie affermazioni.

Cioran, lei scrive, a proposito di Borges, che la consacrazione è la condanna di uno scrittore. Anche lei, in questi ultimi anni, sta subendo clamorosamente questa condanna.

Sì, e non ci posso fare niente. Ma non bisogna cercare delle spiegazioni straordinarie, la spiegazione è semplice: è il livre de poche, l’ edizione tascabile, che ha sollevato l’attenzione dei giovani. Prima ero inesistente; ho scritto per venticinque anni passando del tutto inosservato.

Allora, come mai è stato pubblicato in edizione tascabile?

Ma chiunque viene pubblicato in edizione tascabile! E poi, mi stia a sentire: nel 1952 ho pubblicato da Gallimard un libretto, Syllogismes de l’ amertume. E’ stato un fallimento assoluto. Mi sono sentito dire, anche da persone che mi vogliono bene, da ottime persone: ma che ti è venuto in mente di scrivere un libro talmente insignificante? E altre cose analoghe, al limite della tollerabilità. Un filosofo mi ha persino detto: è un libro compromettente. La sola persona che mi ha capito è stato un biologo, Jean Rostand, il quale mi ha scritto: i contemporanei non hanno delle buone mascelle per masticare cose di questo genere. E’ stato così per decenni.
Sono stati gli studenti di liceo, nemmeno quelli dell’università, a scoprirmi.

Cosa amano in lei gli studenti?

Bisogna stare attenti a non prendere abbagli. Non è tanto l’ aspetto filosofico dei miei libri che piace ai giovani, quanto piuttosto il mio cinismo. E c’è un mio lato cinico, soprattutto in quel libro lì. Un libro disperato, ma cinico dalla prima riga all’ultima. Tutto questo, però, è interessante perché fa vedere come le cose possono cambiare. In Francia c’è stata un’ epoca di euforia, l’epoca di Sartre, in cui dominava una visione della storia che è culminata nella rivoluzione studentesca. Il ’68 è stato una vera utopia in atto.
Una cosa molto simpatica, che funzionava sul momento, ma che non poteva realizzarsi.
E’ come se si facessero progetti per l’eternità dimenticando la morte. E naturalmente questo ha comportato una grande delusione, soprattutto nei giovani. Di qui l’ interesse che essi hanno oggi per i miei libri.

Dunque anche a lei, come scrive a proposito di Valéry, è toccata la sventura di essere capito?

Pensavo quasi di avercela fatta, ma da questo punto di vista la mia vita è stata davvero un fallimento.
Avrei dovuto passare inosservato, ma questo diventa quasi impossibile dal momento in cui si accetta di pubblicare dei libri.
Viviamo in un’ epoca in cui il disinganno è generale.
In questo, i miei libri erano in anticipo di vent’anni.
Ora tutti dicono quello che dico io, senza nemmeno bisogno di citarmi, perché si tratta di cose oramai palesi.
La gente ha perso l’illusione nella storia e l’utopia è diventata una cosa ridicola. E l’utopia è alla base della storia.
Quand’è che la gente si agita? Quando crede nell’ avvenire: è questa l’utopia. Ma quando si dubita dell’avvenire, quando la gente non trova risposta ai propri interrogativi, allora l’utopia è praticamente impossibile.
E in un certo senso, in tutto quello che ho io scritto, non c’ è risposta, non c’ è soluzione.

di BENEDETTA CRAVERI

18 ottobre 1988 — pagina 32 sezione: CULTURA

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