Rimanendo in tema di primi articoli su Cioran in Italia, questo di Alfredo Giuliani (scrittore del movimento “Gruppo 63”) penso sia uno dei più validi.
Ha intuito infatti pienamente le potenzialità dello scrittore rumeno, dandone alcune definizioni illuminanti.
Dirà infatti: “Questo scrittore scioglie i grassi del pensiero, dissolve gli acidi dei sentimenti, ci rende più leggeri” oppure: “In fondo, questo grande negatore non è un nichilista, è un giocoliere”, frase che ricorda un aneddoto raccontato dallo stesso Cioran, in cui si definirà un “plaisantin”, un burlone (e non un “pensatore”).
VI PRESENTO IL SOTTO – DIO
26 marzo 1986 — pagina 26 sezione: CULTURA
Quando ho scoperto Cioran sul banco d’ una libreria, non sapevo chi fosse.
I suoi libri, stampati nella collana dei saggi di Gallimard, si presentavano con titoli attraenti e allo stesso tempo un poco sospetti: Prècis de dècomposition (“Compendio di decomposizione”), La Tentation d’ exister (“La tentazione di esistere”).
Poteva trattarsi del solito spiritualista elegante e frustrato, che ricamava sui soliti temi dell’esistenzialismo (ormai in declino).
Quei libri, invece, appena sfogliati mi conquistarono.
Fiutai in quelle pagine un cattivo umore veramente tonico.
Non l’ho più abbandonato; eppure su lui uomo so ancora pochissimo, pressappoco quanto vi dice oggi l’eccellente garzantina Enciclopedia della letteratura: che è nato in Romania nel 1911 e si è stabilito in Francia nel 1937.
Il suo primo libro, il Prècis de dècomposition, uscì nel 1949; e da allora E. M. Cioran è uno scrittore francese, uno scrittore dallo stile assai particolare, vibrante, tagliente, vicinissimo ai grandi moralisti del Sei e Settecento.
Da dove proviene questo stile così francese, e così insolito nel francese di oggi?
Proviene dalla natura rabbiosa e competitiva di Cioran.
Lui che nel parlare non ha mai potuto sbarazzarsi dell’ accento valacco, ha coltivato l’ambizione di fare altrettanto bene e meglio dei francesi, nello scrivere.
Il segreto del fascino esercitato da Cioran risiede nell’accanimento e nella nitidezza della sua scrittura.
Lo si ammira perchè ferisce, tonifica e irrita; perchè guarda tutto dall’alto e si disprezza; perchè di tanto in tanto ci delude ma con sottigliezza; perchè diverte la nostra intelligenza con l’enfasi della lucidità.
Le spara grosse e ci disinganna inesorabilmente, ma le sue frasi ci lasciano respirare.
Lo si ammira perchè non si è sempre tenuti a credergli.
Egli stesso lo ammette: “Non si scrive perchè si ha qualcosa da dire, ma perchè si ha voglia di dire qualcosa”.
E quand’è che lui ne ha voglia? Basta conoscere due o tre delle sue opere per azzardare una risposta.
Ma non c’ è bisogno di indovinare: abbiamo la sua confessione.
E’ compresa in una raccolta di saggi, ritratti e scritti d’ occasione apparsa ora in Francia, Exercices d’ admiration (Gallimard).
Non ho voglia di scrivere, dice Cioran, se non mi sento in una condizione esplosiva, in un clima di “regolamento di conti”, in uno stato di febbre o esasperazione, o stupore frenetico, come prova chi ha subìto un’ingiuria senza reagire.
Scrivere è un rivalersi tardivo, una indignazione differita, di chi non può digerire l’onta e si vendica con le parole.
Scrivere è disfarsi dei rimorsi e dei rancori, vomitare i propri segreti, combattere contro tutti e contro se stessi.
Finchè la mia temperatura è normale, non so scrivere una sola riga.
Trovo l’ispirazione in uno stato di intenso squilibrio.
Allora è tanto più esaltante levarsi sopra la realtà, fare concorrenza a Dio, quanto più fragile e miserevole è la forza che ce lo consente: l’ironica forza del linguaggio.
Che importa se la prospettiva è falsa?
“Nel mezzo d’ una frase, con quale agio ci si crede il centro del mondo!”.
Tale è la poetica, la morale, la dieta di Cioran.
Ognuno dei suoi libri è un vispo e lugubre vademecum sulla Melancolia, un manuale sull’estasi del pensiero negativo e sulle delizie dello scetticismo.
Denigrare puntigliosamente l’insignificanza del mondo e il “cattivo demiurgo” che l’ha creato, questo è l’ esercizio spirituale di Cioran.
E’ lui il più religioso degli indemoniati che si aggirano tra noi.
Ma non si pensi all’una o all’altra religione, sebbene Cioran sembri averle soppesate tutte (avendo pure soppesato tutte le eresie e le irreligioni o ateismi).
Forse si può pensare alla religiosità profonda del Buddha, che cerca la liberazione e non la faccia di Dio.
Nel suo non-essere di uomo, Cioran si sente costantemente umiliato.
L’uomo è “il punto nero della creazione”. La quale è un’ impostura orripilante.
“Non che questo mondo non esista, ma la sua realtà non è una realtà. Tutto ha l’aria di esistere, e non c’ è niente che esista”.
Il tempo viene a farci visita prima di sparire. La carne ci riveste e ci domina mentre deperisce e degenera.
Non si può dar credito che alla fisiologia e alla teologia.
Esse mi dicono che questo mondo è “il frutto di un dio tenebroso di cui io prolungo l’ombra”.
Il demiurgo cattivo, che esce ora nella “Piccola Biblioteca” Adelphi (pagg. 162, lire 10.000), è una delle operette teologiche più esasperate di Cioran.
La traduzione di Diana Grange Fiori è assai pregevole; ma temo che a pagina 56 un banale errore d’interpretazione abbia distorto un passaggio tanto semplice quanto capitale.
Tra i molti inganni che lo scettico denuncia non può mancare l’inganno del pensare (da cui si crea l’idolo del sapere).
Raggiungere la chiaroveggenza, dice Cioran, è sovrastare la miseria del pensiero, è sapere che non si pensa.
“Si obietterà: sapere che non si pensa, non è ancora pensare? Forse, ma la miseria del pensiero viene superata intanto che la misère de la pensèe est surmontèe le temps que, invece di saltare da un’ idea all’altra, si resti deliberatamente all’ interno di una sola, che rifiuta tutte le altre…”.
In luogo di “intanto che”, troviamo un “fino a quando” che a mio parere toglie senso all’affermazione di Cioran.
Le ultime pagine di Storia e utopia (libro precedente e già tradotto da Mario Rigoni per l’Adelphi) spiegano molto chiaramente ciò che sarebbe dato di cogliere in quell’idea “sola”: il vuoto, eterno presente, il “principio atemporale della nostra natura”.
Se gli uomini non possono spogliarsi, neppure per un momento, della dimensione storica, carnale, corruttibile, della fatalità del male, sono irrimediabilmente perduti. Lasciamo stare il diavolo. A dispetto del suo prestigio, egli non è che un amministratore, un angelo di basso rango.
Per fabbricare un mondo come il nostro c’è voluto “un dio senza scrupoli”, un demiurgo di mostruosa immaginazione, un sotto-dio.
E’ lui il nostro vero nemico.
Quanto all’altro, il dio buono, o meglio il dio senza attributi, non lo conosciamo che quale principio di negazione.
Negazione significa rifiuto del mondo del demiurgo. Negazione che riposa in se stessa e non crea nulla.
Comunque si voglia chiamarlo, gnostico o manicheo o scettico radicale, Cioran è il più grande inventore di variazioni sul tema tradizionale del dualismo.
Da una parte la volgarità, il dire sì a questo mondo.
Dall’altra, la melancolia irriducibile, che viene da mondi lontani. Da una parte il desiderio, la felicità e l’infelicità (mali quasi allo stesso titolo).
Dall’altra, il delirio della disillusione, il piangere senza motivo (segno, forse, che si è capito tutto).
Il demiurgo cattivo ci offre alcune di tali variazioni: sul politeismo, il declino del cristianesimo, la tentazione del suicidio, la liberazione (impossibile) dalle illusioni, sul dubbio e il desiderio, sulla esperienza del vuoto.
Se l’enfasi dualistica di Cioran ci colpisce con troppa violenza, ricordiamoci del suo “regolamento di conti”. Le sue trafiggenti variazioni poggiano su un postulato:
“Ciò che vi è in noi di più radicato, e meno percettibile, è il senso di un fallimento essenziale, segreto di tutti, compresi gli dèi. E questo c’ è di notevole, che i più sono lontani dall’intuire che lo provano”.
Tutti gli dèi hanno fallito, ma non quel “dio particolare”, quel sotto-dio, il demiurgo cattivo.
Per sgominarlo, bisognerebbe cambiare allegramente principio, “affidarsi a un altro creatore”.
Impresa teologica dell’altro mondo, che il sarcasmo dello scrittore lascia ovviamente sospesa. Nelle considerazioni sul suicidio, Cioran mette alla berlina la propria sopravvivenza.
“Perchè non mi uccido?”, si domanda. Esattamente non lo sa nemmeno lui.
Forse perchè scrive troppo buone frasi. Forse perchè ritiene che vi sia una possibilità di salvezza “nella facoltà di arricchirsi al contatto con l’irrealtà”.
In fondo, questo grande negatore non è un nichilista, è un giocoliere.
Anche se fosse un inganno, l’esperienza del vuoto meriterebbe pur sempre di essere fatta. Perchè, spinta all’estremo, “la percezione del vuoto coincide con la percezione del tutto, con l’ingresso nel tutto”.
L’eccessività produce effetti di sollievo, contraccolpi ilari.
Dopo aver letto certi aforismi di Cioran, velenosi o tetri o ruggenti, ci si interessa meglio degli altri, dei fenomeni grandi e piccoli, e si vede più chiaro in se stessi.
Questo scrittore scioglie i grassi del pensiero, dissolve gli acidi dei sentimenti, ci rende più leggeri.
Per fortuna, Cioran non è un saggio, non si traveste da santone.
“Quando passo giorni e giorni in mezzo a testi in cui si tratta unicamente di serenità, di contemplazione, di spoliazione, mi viene voglia d’uscire per la strada e spaccare il muso al primo venuto”.
Bravo! gli avrebbe detto Breton; non sei originale, ma sei dei nostri.
ALFREDO GIULIANI